Ipazia d‘Alessandria fu una eccellente e stimata filosofa e studiosa, che visse a cavallo tra i IV ed il V secolo dopo Cristo. Nacque ad Alessandria D’Egitto in una data che viene approssimativamente indicata nel 370. Nulla si sa della madre, mentre il padre era Teone, l’allora tenutario della Bibliteca di Alessandria. La fanciulla, si dice di bellissmo aspetto, crebbe studiando e collaborando con il padre, il quale era geometra, filosofo, ed insegnava matematica ed astronomia; tutte materie nelle quali la figlia ben presto superò in bravura il maestro, diventando all’età di venticinque anni il capo della scuola alessandrina, sita in via del sole. Tale è tanta era la passione di Ipazia per lo studio e l’apprendimento, che rinunciò in favore di essi ad essere amante, moglie e madre. Sosteneva, infatti, che l’unico scopo per cui valesse la pena vivere era l’accrescimento della conoscenza. Ipazia era una filosofa neoplatonica, la quale aveva fatto sue le teorie, che circa mille anni prima erano state elaborate dal filosofo Talete di Mileto, il quale asseriva che gli dei erano solo una creatura della fantasia dell’uomo, dovuta alla solitudine dell’essere umano di fronte al mistero della morte. Pertanto, continuava Talete, non aveva senso continuare ad adorarli, ma piuttosto la missione umana consisteva nella ricerca di un principio logico di verità insito nella natura e nel suo divenire. Tale ricerca non poteva che essere condotta con il più prezioso dono che l’uomo abbia ricevuto: la ragione. Conseguenza di ciò era, ad esempio, la presa di coscienza dell’inutilità di offrire oro ad una statua di bronzo, per chiedere una guarigione. La guarigione poteva essere la conseguenza solo della ricerca scientifica nel campo medico e quell’oro sarebbe stato impiegato sicuramente meglio se speso per la ricerca, piuttosto che regalato ai sacerdoti.
Nella scuola alessandrina arrivavano studenti dai quattro angoli dell’impero romano, per essere istruiti da Ipazia e tale e tanto era il credito professionale, che la stessa si era guadagnata, da venire
invitata a relazionare in convegni ed incontri di studiosi in tutte le maggiori città dell’impero: Roma, Antiochia, Atene, Costantinopoli, Milano. Purtroppo, però, delle sue teorie non si sa nulla, poichè tutti i suoi scritti furono bruciati dopo la sua uccisione e, la ricostruzione della sua vita, è stata eseguita sulla base di quanto scritto nella fitta corrispondenza tra lei ed il suo dispepolo Sinesio, il quale lasciata Alessandria per essere stato nominato Vescovo di Tolemaide, non smise mai di scriverle e di ricevere le sue risposte. Sinesio morì nel 413, circa due anni prima della morte di Ipazia. La filosofa era talmente convinta che il progresso umano dipendensse dal grado di istruzione della popolazione, che non si limitava ad istruire i suoi studenti presso il centro di ricerca, ma la sera usciva per le strade di Alessandria, indossando il Tribon il mantello dei filosofi, e istruiva gratuitamente alla matematica ed all’astronomia chi non poteva permettersi di pagare i propri studi. La sua fama, il rispetto che le era tributato in tutti gli ambienti, la rendevano simile ad una sacerdotessa. Fu proprio ciò che, però, avrebbe dato adito agli eventi che condussero alla sua orrenda morte. Per capirne la genesi, dobbiamo descrivere prima il contesto storico nel quale si svolse l’intera vita di Ipazia: all’inizio del IV secolo, centinaia di anni di pluralismo religioso, realizzato grazie al paganesimo, che era terreno fertile per la pacifica convivenza di tutte le confessioni religiose, stavano per finire. L’imperatore Costantino aveva dato il via al processo di cristianizzazione dell’impero, facendo diventare la religione cristina, religione di stato. Un suo successore, Teodosio, promulgò gli editti con i quali si proibivano i sacrifici pubblici ed ordinava la chiusura dei principali luoghi di culto pagani. Lo stato aveva deciso la distruzione del paganesimo. Ad Alessandria il Patriarca Teofilo non esitò ad applicare gli editti di Teodosio con determinazione. Qualche anno dopo, Cirillo, suo nipote e successore quale Patriarca di Alessandria, estese gli attacchi anche agli ebrei. Le tre grandi “famiglie” che componenvano la popolazione di Alessandria, gli ebrei, i cristiani e gli elleni (di cui faceva parte Ipazia), erano quotidianamente in lotta tra di
loro per le strade della città. Le scaramucce tra opposte fazioni erano all’ordine del giorno. Cirillo chiese ad Oreste, Prefetto Augusteo, di espellere dalla città la popolazione ebrea, ma quest’ultimo, pur essendo cristiano, si oppose. Egli, infatti, era molto amico di Ipazia ed andando spesso a trovare la donna presso il centro studi era fortemente influenzato dalle teorie liberali, che circolavano all’interno dello stesso. Fu questa la prima colpa che il Vescovo Cirillo imputò ad Ipazia. A suo dire l’ordine ad Alessandria non poteva essere ristabilito, poichè i due uomini chiamati a governare la città, il Vescovo ed Il Prefetto Augusteo, non erano uniti, a causa dell’influenza nefasta di quella donna su Oreste.
A questa prima colpa ne vanno aggiunte almeno altre tre:
–in primo luogo, l’influenza di Ipazia sul popolo sottraeva potere sia al Prefetto, sia e soprattutto al Vescovo, il che rendeva ancora più intollerabile, che Oreste non si schierasse dalla parte di Cirillo;
–in secondo luogo, tanta influenza da parte di una donna non era accettabile. La cultura di allora in maniera univoca vedeva la donna quale essere inferiore al cospetto dell’uomo. Platone riteneva la donna inferiore per natura, Aristotele la definiva addirittura uno scarto della natura. Il cristianesimo non aveva un concetto della donna molto più edificante;
–infine, il Vescovo riteneva intollerabile che Ipazia si ostinasse a insegnare gratuitamente per le strade. Ambrogio e Agostino sostenevano che la cultura non la si può dare a tutti, ma solo a persone, che siano pronte e preparate a riceverla. Ipazia era convinta del contrario, poichè nella cultura vedeva l’unico mezzo per l’uomo di conquistare la propria libertà.
Nel frattempo in città erano arrivati dal deserto circa 500 monaci parabolani. A dispetto dell’appellativo, si trattava unicamente di vili mercenari, convertitisi al cristianesimo perchè ciò gli garantiva l’immunità per le loro malefatte. Messisi al servizio del Vescovo Cirillo, furono proprio questi che una sera del 415 sorpresero durante alcuni
tumulti Ipazia. La stessa fu portata nella cattedrale, denudata e scarnificata viva attraverso l’uso di conchiglie affilate. I resti del suo corpo furono portati poi al cinerone, per essere bruciati tra la spazzatura.
Malgrado tutte le ragioni che portarono Ipazia in odio ai cristiani siano da ricollegarsi a dissidi tra la stessa ed il Vescovo e malgrado i monaci parabolani fossero praticamente al servizio di quest’ultimo, Cirillo non partecipò direttamente all’omicidio della filofofa e in ambiente ecclesiastico si sostiene che non vi è prova di un coinvolgimento neanche indiretto: infatti, Cirillo è stato proclamato Dottore della Chiesa nel 1882 da Leone XIII, un papa ossessionato da nuovo paganesimo della massoneria.
Cirillo governò Alessandria D’Egitto per i trent’anni successivi alla morte di Ipazia da padrone assoluto. Durante tale periodo la Biblioteca di Alessandria D’Egitto fu data al fuoco dal Popolo appositamente sobillato. Andarono distrutti circa 500.000 volumi. La particolarità di tale biblioteca, rispetto alle altre grandi dell’impero, era il libero accesso al pubblico, la dove al contrario era normalmente permesso di accedere alle biblioteche solo agli studiosi.
Ipazia morì per difendere la libertà di pensiero, il pluralismo, la libertà di ricerca, il valore delle scienze sperimentali. Valori questi ancora oggi costantemente sotto attacco in molte parti del mondo. L’idea che la luce della conoscenza sia da guardare con sospetto e da considerare perciolosa se diffusa a tutta la popolazione; l’idea che le donne debbano essere subalterne agli uomini e pertanto debba essere loro negata l’istruzione e l’ingresso in società; l’idea che la parola “dubitare” non permetta di “credere” e di “obbedire” e che, pertanto, l’attività inquisitoria e investigativa dello scienziato siano propagine di forze maligne; la convinzione di possedere la verità rivelata, che può essere ottenuta semplicemente credendoci, e che dona la superiorità sull’infedele. Tutte queste idee sono, insieme alla sete insana di potere e ricchiezza dell’uomo, alla base di tutte le guerre che vengono combattute nel mondo. Non solo, sono numerose, attive e pericolose le
correnti e le teorie, che anche nel pacificato mondo “occidentale” tendono ad affermare le suddette idee, usando tutti i mezzi di comunicazione ed in particolar modo internet. Oggigiorno ci sono vastissime aree del mondo, nelle quali il fondamentalismo islamico osteggia l’accesso al sistema scolastico delle bambine e delle ragazze, non ritenendole degne in quanto donne di ricevere l’istruzione. La misoginia è un ingrediente fondamentale comune a tutte le religioni monoteistiche, ma presente anche nella cosidetta “società civile”, nella quale ogni giorno si registrano atti di discriminazione nei confronti delle donne e, purtroppo, femminicidi in numero costantemente crescente. Sarebbe, al contrario, fondamentale insegnare già nelle scuole elementari, dove per altro quasi la totalità dei docenti è di sesso femminile, che le persone vanno apprezzate per le loro diverse qualità, senza mai discriminare in base al sesso o alla razza. Le numerose ed eminenti scienziate (penso alle compiante Margherita Hack e Rita Levi Montalcini), imprenditrici, manager, politiche, hanno ampiamente dimostrato e dimostrano tutti i giorni di poter essere utili alla causa ed al genere umano tanto quanto i colleghi di sesso opposto. Allo stesso tempo, la ricerca scientifica ci ha insegnato ormai da molto tempo, che le diverse razze sono il frutto di un adattamento del genere umano alle diverse condizioni di vita, non rappresentando in alcun modo un parametro, da cui possano derivare pretese di superiorità da parte di alcuno.
Nella mia personale esperienza di vita ho incontrato molte persone, che denotano il modo di pensare che portò alla uccisione di Ipazia. A mio parere tutte queste persone cercano di affrontare i problemi che concernono la vita umana, pretendendo di risolverli con “facili ricette”. Tutte queste facili ricette partono da un errore di base: la speranza che le soluzioni vengano dall’autorità invece che dall’autorevolezza. Non solo, alcune di queste persone tendono a far coincidere con il concetto di autorità quello di autorevolezza. Le conseguenze di un simile errore fanno giungere a conseguenze secondo le quali chi conquista l’autorità perchè più forte governa tutti quei soggetti ritenuti inferiori: donne, persone di altre razze o religioni.
L’esempio di Ipazia, invece, rende evidente l’importanza di affermare nella società civile la supremazia dell’autorevolezza, che deriva dalla cultura e dalle conoscenza, in una parola dalla luce. Solo attraverso tale via il genere umano potrà progredire nella pace e nella non violenza, in un mondo nel quale i rapporti gerarchici non siano unicamente rapporti di forza basati sulla violenza sul credere e sull’obbedire, ma siano rapporti di collaborazione nei quali chi è sottoposto riconosce il ruolo superiore di chi deteniene maggiore conoscenza, a prescindere dal sesso dalla razza o dalla religione.
Credo che ancora oggi il fondamentalismo religioso faccia incombere sul genere umano la minaccia della ripetizione della sciagura, che colpi il mondo quando il cristinesimo lo condusse nell’epoca oscura del modio evo. Circa 1000 anni in cui il progresso della conoscenza umana è stato bloccato ed addirittura fatto regredire, a causa delle più svariate superstizioni religiose, culminate in quel fenomeno criminoso, che fu la santa inquisizione. Per tanto, onorato di aver potuto scolpire la presente tavola sulla grandissima figura di Ipazia d’Alessandria, mi sento ancor di più chiamato a vivere la vita che mi è concessa, dando testimonianza dell’importanza della diffusione della luce della ragione e del libero pensiero. Direi, concludendo, che a mio modo di vedere la figura di Ipazia racchiuda in se la simbologia, per un verso, della ricerca ostinata della luce della conoscenza cui ella consacrò tutta la sua vita, e per altro verso, della forza d’animo con la quale seppe opporre fino alla fine all’arroganza del Vescovo Cirillo il rifiuto alla conversione al cristianesimo ed alla abiura dei propri valori.
P.L.