Al metodo, alle intenzioni, alle altissime ambizioni spirituali dell’opera di Elémire Zolla, scomparso dieci anni fa, un libro come I letterati e lo sciamano fornisce la migliore delle introduzioni. Ma è importante dissipare fin dall’inizio un equivoco, che potrebbe essere imputato allo stesso sottotitolo dell’opera, ovvero L’indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988. Il fatto è che questo libro, pubblicato la prima volta nel 1969 e subito tradotto in inglese e francese, tutto è tranne che un ennesimo contributo a quel fin troppo rigoglioso genere di prosa accademica che si definisce «critica tematica».
Non che ci sia nulla di male, in sé e per sé, nella critica tematica, che come ogni tipo di scrittura annovera pochi autentici capolavori e una selva di tediose esercitazioni firmate dagli epigoni. Per praticarla, bisogna chiudersi in biblioteca, e rintracciare quello che appunto si definisce un «tema» (l’adulterio, o l’epopea napoleonica, o, nel nostro caso, la vita e il destino dei pellerossa americani) in un certo numero di opere letterarie, somme o minori che siano. Se ne ricava, nel migliore dei casi, qualcosa come un frammento di tradizione, o la storia di un fantasma, di un’ossessione culturale. Tutt’altra è la posta in gioco, però, nelle ricerche di Zolla, nelle quali il sapere non è mai il fine, ma lo strumento di un’autentica gnosi.
A differenza di quanto pensano certi male informati rappresentanti del laicismo, ma anche del cattolicesimo contemporanei, la gnosi e lo gnosticismo non sono delle parolacce. Si può parlare di un processo di conoscenza gnostico quando il soggetto, l’oggetto, e il metodo impiegato coincidono, al termine di una lunga disciplina interiore, foriera di metamorfosi e illuminazioni imprevedibili. La storia delle scienze esatte, a ben vedere, contiene altrettanti esempi di gnosi di quella del misticismo o dell’alchimia. Per chi muove alla ricerca della verità da tale ardua prospettiva, la distinzione dei saperi è del tutto irrilevante. Semmai, dovrà fare i conti con un’infinità di fallimenti, e una rarità dei materiali davvero preziosi, che un normale storico della cultura nemmeno sospetta. Ecco perché quella che Zolla racconta in I letterati e lo sciamano è, in massima parte, la cronaca di una disfatta intellettuale, che si intona perfettamente al genocidio perpetrato dagli uomini bianchi ai danni dei nativi americani. Fin dai primi esploratori, l’incontro con i cosiddetti «selvaggi» produce un immenso processo di mistificazione e banalizzazione. «Ridicoli quando amici, detestabili quando ostili» sono gli indiani agli occhi dei conquistatori, secondo l’efficace, terribile sintesi di Zolla. E il bello è che, mentre questa lunghissima vicenda si svolge, la storia ideologica e culturale dell’Occidente registra una vertiginosa serie di mutamenti ideologici, metamorfosi della sensibilità, nascite di nuovi saperi e nuovi metodi di ricerca.
Ma la diagnosi rimane pessima, e mentre la civiltà indiana sparisce a colpi di massacri, epidemie e deportazioni, le generazioni che si susseguono continuano a mancare l’incontro con le inestimabili ricchezze religiose e filosofiche che i vinti non cessano, con orgoglio e disperazione, di tramandarsi. Fino a che – il caso è tutt’altro che infrequente – intere sapienze millenarie non ricadono sulle spalle di un solo testimone, un vecchio sdentato che, scampato casualmente alla distruzione della sua tribù, continua a mormorare le sue nenie incomprensibili senza più un allievo capace di intenderne il potere e farle proprie. Nemmeno la nascita dell’etnologia scientifica sarà veramente capace di rompere definitivamente questa specie di infausto sortilegio. Zolla non smette di ripeterlo a ogni snodo cruciale del suo libro: non solo il razzismo, ma anche la «benevolenza» e la «fraternità sentimentale» sono false strade per accostarsi all’assoluta alterità, al nobilissimo universo psichico dell’indiano. Serve ben altro: ciò che Dante definiva «un intelletto d’amore». Questa disposizione d’animo è un vero miracolo, capace di aprire porte che sembravano per sempre serrate.
E non manca un bilancio attento ed equanime dei libri di Carlos Castaneda, prima venerato santone della controcultura, e poi sottoposto a un’odiosa e ingiusta demolizione accademica. Verrebbe voglia, chiuso il libro, di sapere cosa avrebbe scritto Zolla di alcune opere americane più recenti nelle quali i rapporti tra l’uomo bianco e l’indiano vengono raccontati con nuove tecniche e punti di vista, da Mason & Dixon di Pynchon al ciclo dei Sette sogni di William Vollmann. Ma i grandi libri non hanno bisogno di aggiornamenti; per meglio dire, sono i loro lettori ad aggiornarli. E tutto da meditare, e da discutere con libertà e coraggio, è il più duro degli ammonimenti di Zolla, sulla scomoda e imbarazzante somiglianza tra il più turpe razzismo e i nobili e vaghi dogmi dell’ottimismo progressista e della correctness . È una sfida alla mediocrità, questa, che ancora aspetta menti capaci di raccoglierla e rilanciarla.
25 luglio 2012 |Corriere della Sera